In un recente approfondimento condotto dal quotidiano economico finanziario Il Sole 24 Ore venivano citate le parole pronunciate Carlo Capasa durante la seconda International roundtable on sustainability che la Camera nazionale della moda (Cnmi) ha organizzato con Swarovski a Milano non troppi giorni fa, a ricordo del fatto che la moda è la seconda industria più inquinante al mondo, dopo quella del petrolio.
Di qui, un immediata considerazione sul nostro Paese, che produce il 40 per cento della moda europea (una percentuale che sale al 70 se non si considerano le produzioni fast fashion) e che dunque non può che essere in prima linea nel tentativo di migliorare la situazione.
Nello stesso evento milanese, peraltro, Capasa fa il punto sui passi in avanti effettuati dall’industria della moda tricolore, rammentando come a fare la differenza nell’approccio delle istituzioni al tema della responsabilità ambientale e sociale nella moda sia stata la trovata concretezza dell’azione. “Il cambio di passo – spiega Capasa – è avvenuto quando abbiamo pensato di poter cominciare a misurare cosa è sostenibile e cosa no. Nell’ultimo anno abbiamo diffuso linee guida sulla sostenibilità nel retail, sull’impiego di sostanze chimiche nella produzione e sullo smaltimento di sostanze dannose. Insomma: numeri, azioni”.
Intuibilmente, molto rimane da fare in ottica globale. “Nel 2017 gli acquisti di prodotti di moda sono aumentati del 60% rispetto al 2000 – ha detto Birgit Lia Altman, associate economic affairs officer presso l’Economic commission for Europe dell’Onu, con dichiarazioni ancora una volta riportate sullo stesso quotidiano –. I capi durano il 50% in meno e il 40% di essi non viene mai utilizzato”.
Dunque, mentre si riflette se ci si cambi i vestiti troppo spesso, e mentre i consumatori più consapevoli mettono in dubbio la formula del fast fashion, le aziende di settore sembrano finalmente aver rotto l’indugio, prendendo in mano la situazione.